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I giorni della merla

29/01/23

Conosci tutte le versioni della leggenda dei Giorni della Merla?

Secondo un’antica credenza diffusa in tutta la Lombardia, i tre giorni più freddi dell’anno sono gli ultimi giorni di gennaio, vale a dire il 29, 30 e 31.

Questi giorni sono chiamati anche “giorni della merla”, i dì della Merla.

Un’antica leggenda vuole, infatti, che un tempo una merla, che allora, come tutti gli altri uccelli della sua specie, aveva le piume bianche, per cercare di sfuggire alla morsa del freddo che minacciava di uccidere lei ed i suoi piccoli, cercò rifugio nella parte terminale di un camino, dal quale saliva un denso e caldo fumo nero.

Ci stette tre giorni, perché il freddo non accennava a diminuire. Il quarto giorno, finalmente, giunse febbraio, e con esso terminò la fase più intensa del gelo.

Un timido sole regalava un primo accenno di tepore.

La merla ed i piccoli poterono, così, lasciare il rifugio improvvisato e volar via.

Ma l’avventura non fu senza conseguenze: l’intera famigliola, infatti, aveva perso per sempre il bel colore candido delle piume, che erano diventate nere a causa del fumo che le aveva avvolte, salvandole, in quei tre giorni.

I merli neri si diffusero sempre di più, tanto che ora tutti i merli sono neri.

Esiste anche un'altra versione della storia, che introduce la figura di "Gennaio".

Secondo questa leggenda la merla era regolarmente strapazzata da gennaio, mese freddo e ombroso, che si divertiva ad aspettare che lei uscisse dal nido in cerca di cibo, per gettare sulla terra freddo e gelo.

Stanca delle continue persecuzioni, la merla un anno decise di fare provviste sufficienti per un mese, e si rinchiuse nella sua tana, al riparo, per tutto il mese che allora aveva solo ventotto giorni.

L'ultimo giorno del mese, la merla, pensando di aver ingannato il cattivo gennaio, uscì dal nascondiglio e si mise a cantare per sbeffeggiarlo.

Gennaio se ne risentì così tanto che chiese in prestito tre giorni a febbraio e si scatenò con bufere di neve, vento, gelo, pioggia.

La merla si rifugiò alla chetichella in un camino e lì restò al riparo per tre giorni.

Quando la merla uscì, era sì salva, ma il suo bel piumaggio si era ingrigito a e così essa rimase per sempre con le piume grigie.

Un'altra leggenda vede Merlo e Merla nelle vesti di due giovani sposi che, sposandosi come di tradizione nel paese della sposa che si trovava oltre il Po, erano costretti ad attraversare il fiume per giungere di ritorno nella loro casa.

Dopo aver atteso ben tre giorni dai parenti in attesa che le condizioni climatiche migliorassero e visto che non vi era nessun cenno di miglioramento, decisero di attraversare a piedi il fiume che, dato il gran freddo, era ghiacciato.

Purtroppo Merlo nell'attraversamento del fiume, morì poiché la lastra di ghiaccio non resse il suo peso.

Merla pianse così tanto di dolore che si dice che il suo lamento si senta che ancora oggi lungo le acque del Po nelle notti di fine Gennaio.

In ricordo di questo triste episodio, le giovani in età da marito si recavano sulle rive del fiume nei tre giorni della Merla per ballare e cantare una canzone propiziatoria il cui ritornello dice: "E di sera e di mattina la sua Merla poverina piange il Merlo e piangerà". (fonte: il Giorno)

Vediamo, ora, cosa scrive Giuseppe Napoleone Besta, nei sui “Bozzetti Valtellinesi” (Bonazzi, Tirano, 1878).

Un freddo rigido e secco penetra nelle ossa e costringe ciascuno a chiudersi nella propria casa.

Il ricco nelle sale foderate di legno, al tepore della stufa, passa le giornate e le lunghe sere chiacchierando, leggendo, giocando.

L’artista, per quanto glielo concedono i mezzi e il freddo, lavora attizzando di quando in quando il fuoco nel camino della sua cucina; il contadino e il medico riparano nella stalla.

 I giorni della merla, gli ultimi di gennaio, sono quasi sempre i giorni più rigidi dell’inverno, poiché nel febbraio qualche vento sciroccale tempra la crudezza del clima.

In questi dì o presso a poco in questi ogni anno il freddo diventa crudo oltremodo, ed è causa di malattie pericolose.

I poveri vecchi, i bimbi tenerelli, sono in quest’epoca fatale rapiti all’amore dei loro cari; ed il becchino ha da rompere le zolle gelate del camposanto, spesso dopo aver da un canto gettato un alto strato di neve per scavare una fossa.

Se avessimo a passare i domestici annali, vedremmo che pur troppo ogni famiglia in questo periodo dell’annata ha una qualche pagina di lutto; e tanti vecchi padri, tante care nonne passarono nel numero dei più!

Appunto perciò il buon dottore del villaggio in questa stagione non cessa di raccomandare alle madri vigilanza sui bambini, e a tutti in generale, di none sporsi senza stretto bisogno al freddo intenso; di guardarsi dal repentino passaggio da una tepida ad una gelata temperatura; e tutto questo onde prevenire tossi, catarri, mal di gola, tisi e tutta la catena delle infermità che sono triste retaggio dell’invernale stagione.

Rammentiamo in Valtellina anni parecchi in cui il freddo fu intenso al segno da far morire gli uccelli che non emigrano da questi paesi, da far scoppiare con forte detonazione le piante a cui la bassezza della temperatura raggelò gli interni umori, infine da assiderare sulla via qualche infelice che nella notte non ebbe tempo di porsi al sicuro.

Furono pochi tali inverni ma sono pure trascorsi sulla nostra amena vallata.

E un rigido inverno fu quello del 1812, nel quale appunto scoppiavano nottetempo gli alberi nelle pianure di S. Giacomo e della Selvetta, imitando lo sparo dei mortaretti.

Il termometro Reamour scese a 20 gradi sotto il gelo.

Fu in quell’inverno tremendamente memorabile in cui a mille a mille cadevano gelati nelle incommensurabili steppe dell’Ukrania, coi molti infelici soldati di Napoleone, parecchi dei nostri avi, i di cui pochi sopravvissuti a quell’eccidio, che una fortuna miracolosa aveva risparmiati, ritornarono al tetto natale dopo aver lasciato qualche membro distrutto dal freddo là in quell’immenso cimitero, ove la corona del grande di Corsica perdette parte dei tanti allori.

In quegli anni un terribile nemico infestava la nostra vallata.

I lupi, i famelici lupi, nei crepacci dei nostri monti, nei burroni delle nostre macchie, tessean carole ululando al chiarore della luna.

Nel freddo gennaio, poi, scendevano affamati sui nostri campi; passeggiavano sulle nostre vie; finivano all’uscio dei nostri ovili, in cerca di preda… Il piano della Selvetta è per strane leggende memorabile, come quello in cui avvennero scene di sangue, e nessuno osava temerario avventurarsi di notte in quei paraggi.

Anche nel 1816 un inverno dei più orrendi funestò la Valtellina, quell’inverno che poi preparò la miseria del 1817 di dolorosa memoria.”

(fonte: http://www.paesidivaltellina.it)